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Il Dna antico della Brianza aiuta le microaziende a rilanciarsi dopo la crisi

di Aldo Bonomi

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24 Gennaio 2010

I cugini francesi, orgogliosi dei loro grandi gruppi, parlano sempre più spesso di artigiani e piccole imprese. Addirittura nella City gli invisibili alla Borsa sono presi in considerazione. Per una volta non si parla male di les italiennes con il loro capitalismo molecolare. Non so se i nostri piccoli imprenditori abbiano coscienza di essere osservati da chi, fino a poco tempo fa, li riteneva solo un'anomala preesistenza poco funzionale al turbocapitalismo. Per chi ci osserva con interesse, mi pare utile la ricerca con cui la nuova Camera di commercio della Brianza ha cercato di capire come la pancia del sistema, le micro-imprese da 1 a 9 addetti, tiene e si riposiziona dentro la crisi.
Con 60mila imprese attive, una ogni 13 abitanti, la Brianza è una grande piattaforma produttiva dove gira il motore di alcune delle filiere più pesanti del made in Italy, dai mobilieri che ogni anno rappresentano le loro eccellenze, al Salone del mobile, alla meccanica di precisione. Qui l'urto della crisi è stato retto da un popolo di capitalisti molecolari dal Dna antico (il 47,8% delle imprese è stata costituita prima della crisi petrolifera del 1973) che negli ultimi anni ha visto crescere una nuova leva di giovani titolari diplomati e laureati, nuovi imprenditori immigrati e molte imprenditrici donne. Quasi il 60% è composto da ex lavoratori dipendenti; una piccola borghesia dalle radici popolari nata più dal desiderio di autorealizzazione individuale (47,5%) che dalla perdita del posto di lavoro (5,3%) o dall'eredità di famiglia (33,2%). Un'impresa molecola sociale, figlia del trittico persona-famiglia-comunità, con il 45,1% che ha iniziato con capitali propri e il 52,5% che li ha ottenuti da famigliari, parenti o amici.
È un popolo che, pur sotto stress, tiene botta. Nonostante commesse e fatturati in caduta, il 67,8% è ottimista sulle prospettive di uscita dalla crisi e solo il 16,3% dei nuovi imprenditori pensa che avrà grosse difficoltà nel recuperare. Tiene il fronte del lavoro perché solo il 4,8% ha ridotto il personale. Regge una comunità di fabbrica per non disperdere un personale i cui saperi sono il cuore pulsante dell'impresa; un modello di responsabilità sociale alternativo a quello della grande impresa. Si tiene, tutto sommato, anche sul fronte della finanza, visto che solo il 13% ha sofferto veri e propri "problemi finanziari" nel corso del 2009. Di questi il 59,7% ha trasferito parte del patrimonio nell'impresa o ha chiesto aiuto alla famiglia e solo il 35% si è rivolto alle banche. Ma non s'indulge alla retorica del "ce l'abbiamo fatta". Perché si è consci che "la crisi è finita... ma continua" e la capacità di tenuta non potrà durare all'infinito. Da qui quella che per molti è la novità dell'oggi: l'impresa tiene, è vero, ma avanzano inquietudine e incertezza riguardo uno status di ceto medio fatto di sicurezze economiche e capacità di consumo. Il 27,1% (36,2% tra chi ha aperto l'azienda dopo il 2008) è pessimista riguardo alle prospettive economiche della propria famiglia negli anni a venire. La crisi è un flusso potente che crea spaesamento. È difficile ripensarsi orfani dello sviluppo illimitato che aveva caratterizzato la prima globalizzazione, quella soft dei consumi crescenti e delle esportazioni in cui bastava lavorare sodo, affittare macchine e capannone, e il lavoro veniva da solo. Su tutto la grande paura del credito. Che cosa succederà, ci si chiede, quando nel 2010 si dovranno presentare alle banche i bilanci sofferenti del 2009?
La crisi fa selezione e verticalizza la nebulosa del capitalismo molecolare. In Brianza emergono almeno tre tipologie d'impresa. C'è in primo luogo un 34% d'imprenditori, le avanguardie agenti, che affrontano la crisi armati di fiducia nel futuro, cercano nuovi mercati, immaginano nuovi prodotti, cambiano i modi di comunicare ciò che già fanno. Sono più presenti proprio in quel mondo della produzione industriale in conto terzi (59,5%) colpito più duramente dalla crisi. È il segnale che "sotto pelle" il mondo delle filiere produttive sta reagendo, producendo una figura imprenditoriale che si può definire "comartigiano", capace di fondere l'artigiania con conoscenze codificate imprescindibili per innovare e internazionalizzare l'impresa. Tra i piccoli del mobile si cercano nuove vie: un design più funzionale, la potenza del web, più servizi e logistica; senza rinunciare al legame tra prodotto e capacità artistica. Nelle produzioni più pesanti si tenta la via dell'innovazione tecnologica sui materiali. Tutti in direzione di una green economy manifatturiera vista come la nuova frontiera. Anche l'età è importante: innovazione e fiducia nel futuro sono soprattutto patrimonio dei più giovani.
Vi è poi un bacino di imprese resistenti (il 43%) che hanno reagito riducendo i costi o il personale e appaiono più pessimiste riguardo alle prospettive se la crisi dovesse permanere. Sono imprenditori che, in attesa di tempi migliori, appaiono incerti tra una visione della crisi come semplice ciclo oppure come evento epocale. Più presenti nelle impresine dell'edilizia e dei servizi dove probabilmente si è più abituati allo "stop and go" dei mercati e la leva dei costi fissi è più manovrabile, i resistenti lo sono anche tra quella generazione d'imprenditori che ha incarnato il boom del capitalismo personale tra fine anni 80 e anni 90, oggi tra i 50 e i 60 anni con titoli di studio medio-bassi. Infine, rimane sul terreno un 23% di imprese che appaiono sfiduciate, travolte dallo stress da crisi, bloccate nell'azione e pessimiste sulle possibilità di superare la crisi. Sono i piccoli dei piccoli. Età elevata, titolo di studio basso, piccolo commercio e terziario avanzato i tratti che li distinguono.
  CONTINUA ...»

24 Gennaio 2010
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